Cresta Nord all’anticima ovest della Cima Menna: tentativo e ritirata rocambolesca

Una via di mezzo tra una ravanata e un’avventura rocambolesca, su una montagna già di per sè abbastanza selvaggia: come disse il grande Bruno Detassis in fin dei conti l’alpinista più bravo è quello che torna a casa!

Questa cresta ce l’avevamo in testa da tempo, dopo aver fatto le nostre valutazioni (evidentemente errate, ma capita) abbiamo deciso che era arrivato il momento di provare. Peccato perchè nonostante la bella giornata del tutto priva di vento le condizioni per affrontare la seconda metà del percorso – ovvero gran parte della cresta stessa – non erano per nulla buone.
Fatto un breve tratto di cresta ci siamo resi conto che i troppi accumuli e la neve non portante avrebbero reso difficoltosa e pericolosa la progressione da qui in avanti: ultima chiamata per la ritirata, non ce lo siamo fatta ripetere due volte!

Ed è stata la ritirata più complessa che abbiamo dovuto gestire nella nostra esperienza: visto che non siamo degli incoscienti eravamo attrezzati.
Caso ha voluto poi (si fa per dire…..qualche presentimento? 😛 ) che giusto la sera prima avessimo preparato con le nostre vecchie mezze parecchi cordini d’abbandono, cosa che ci ha consentito di inanellare una serie di calate di albero in albero (per evitare di disarrampicare nei punti più pendenti, sprotetti e con neve inconsistente) senza lasciar giù un capitale in fettucce!
Dunque se troverete una serie di cordini verdi legati agli alberi lungo la via… ecco, vorrà dire che siete sulla nostra linea di discesa! salutateceli 🙂

Vi raccontiamo la nostra salita fino al punto in cui siamo arrivati: torneremo in primavera per portarci a casa l’intera via!

Premettiamo che nelle condizioni in cui lo abbiamo trovato, questo percorso è niente affatto banale: ci sono tratti con pendenze superiori ai 60-65 gradi, a seconda anche dei punti in cui si sale, e non si scende quasi mai sotto i 45.

traccia gps del percorso dalla baita dello Zoppo fino al punto dove abbiamo fatto retrofront (1.920m)
e ritorno, fino al parcheggio di Roncobello

Avvicinamento

Arrivati a Roncobello si prosegue per raggiunge la frazione Costa, parcheggiando lungo la Via Monte Menna, 200 metri dopo la curva a U. Sul lato opposto della strada si può salire attraverso la campestre oppure più direttamente attraverso il sentierino tra due recinzioni che taglia il tornante della campestre ricongiungendosi ad essa poco più a monte.
Si segue la strada sterrata sino ad arrivare al sentiero segnalato da palina sulla sinistra, sentiero che sale ripidamente nel bosco; bellissima la grotta della Corna Busa, una formazione naturale a pochi minuti dall’attacco del sentiero.

Raggiunta la Baita dello Zoppo nel nostro caso abbiamo iniziato a trovare neve, per cui abbiamo proseguito calzando i ramponi su una traccia comunque riconoscibile (segni rossi, ometti) che punta al Passo Menna. Una volta che il bosco si era fatto più rado abbiamo obliquato iniziando a salire a sinistra, tracciando su neve: abbiamo capito scendendo che avevamo sbagliato (anche se non di molto) l’attacco, che si trova più in basso rispetto al punto dove ci siamo staccati dal sentiero.

Descrizione della via (fino al punto di abbandono – 1.920 m slm)

A quota 1.650 m abbiamo appunto abbandonato il sentiero, salendo fino a ridosso della prima bastionata rocciosa, traversando poi decisamente verso sinistra per riprendere il filo di cresta, in corrispondenza di un grosso pino mugo mezzo sepolto dalla neve.

Da qui si risale un canalino, nel nostro caso ghiacciato, sui 30-40 gradi, sino a che si aprono diversi scenari (1.800 m circa): i nostri compari, Nigga e Beach, forse pensando che la cresta non sarebbe stata abbastanza ingaggevole 😛 , hanno deviato a sinistra per affrontare delle roccette, in misto, a limite del filo di cresta. Noi invece siamo saliti dapprima verticalmente su quella che dovrebbe essere la via ufficiale, ma vista la neve del tutto inconsistente ad un certo punto abbiamo deviato a destra dove ci sembrava migliore, puntando verso un “morto-in-piedi” (albero morto) e affrontando diversi saltini quasi verticali e buchi nella neve non proprio rassicuranti.

Il salto roccioso superato dai compagni di escursione, ai quali ci siamo faticosamente ricongiunti all’attacco vero e proprio del percorso di cresta, non è banale (forse IV) e precipita vertiginosamente verso valle sul lato sinistro (faccia a monte). Tra l’altro ci hanno riferito che la roccia non era proprio bellissima.

Una volta ricongiunti ci siamo potuti rendere conto dello sviluppo che ancora ci aspettava: parte del dislivello ce la siamo lasciata alle spalle, ma la cresta è ancora molto lunga, con diversi sali scendi di cui ancora possiamo solo immaginare l’entità. Inoltre, fino a qui abbiamo proceduto abbastanza lentamente per via delle condizioni di innevamento; decidiamo di proseguire (ignorando il saggio appello del buon Beach), anche perchè abbiamo tutti zero voglia di affrontare il percorso appena fatto in discesa!

Superiamo un primo saltino roccioso sul filo di cresta, guadagnando qualche ulteriore metro in elevazione e proseguendo oltre di qualche altro faticoso passo fino a 1.920 m di quota. Gli accumuli di neve lungo tutta la cresta da qui si vedono bene: no, non è cosa e proseguendo oltre la ritirata sarebbe troppo complicata.
Siamo nei pressi di una roccia sulla quale è possibile organizzare una prima calata, in massima esposizione, verso un albero sotto di noi. Da lì studieremo il da farsi.

L’arte della fuga!

Le alternative per il dietrofront che ci si prospettano dalla nostra gradevolissima posizione, ovvero punto esposto con uno strapiombo sotto e noi quattro assicurati al tronco di un profumatissimo albero con uno dei nostri cordini d’abbandono, sono abbastanza scarse.
Dopo aver valutato il ripido canalino sotto di noi che immaginiamo finisca su un salto roccioso e come seconda alternativa la possibilità di spostarci nettamente dalla parte opposta a quella da dove siamo saliti, su un pendio di cui non possiamo indovinare la pendenza e apparentemente privo di punti di appoggio (alberi, rocce ecc), non ci resta che rassegnarci al fatto che dobbiamo scendere da dove siamo saliti.
(molto utile per la valutazione è stata la foto di questo versante pubblicata sulla guida di Versante Sud “Ghiaccio delle Orobie, che ci eravamo salvati sul telefonino e dalla quale abbiamo dedotto il punto in cui eravamo)

Come detto in precedenza, facendo largo uso dei nostri cordini d’abbandono, abbiamo concatenato una serie di calate di albero in albero, riportandoci dapprima in diagonale sulla verticale della linea di salita e poi scendendo in corda doppia i tratti più ripidi e con neve inconsistente. Arrivati quasi al termine della via di salita, pochi metri sotto al pino mugo sepolto dalla neve di cui si diceva all’andata, abbiamo trovato una traccia che probabilmente è il primo tratto di via ufficiale che non abbiamo percorso. Da qui si cammina faccia a valle e abbiamo velocemente riguadagnato il percorso dell’andata.

Al tramonto siamo arrivati al parcheggio, ma se non avessimo fatto le giuste valutazioni avremmo potuto essere in cresta in attesa dei soccorsi.
Solo una cosa abbiamo sicuramente toppato: mai portarsi le mezze da 30 m per fare ste robe… con quelle da 60 avremmo potuto dimezzare i tempi ed ottimizzare la discesa!

Guest stars: i cordini d’abbandono, santi subito.
con:
il Nigga: maestro di corda, anche in questo caso non si è smentito e ha ripetutamente cazziato Erica (sì, il lato B del blog) per la sua spannometricità in montagna
il Beach: che ha trovato lo spirito e il tempo di fare una diretta Instagram mentre ci stavamo calando verso Dio sa cosa (vedi sotto)
noi:
il Gabri: santo subito anche lui, che sopporta la scrivente e le sue malcelate paure rispetto alla discesa su pendenza
la Erica: che per l’appunto non ha smesso un secondo di farsela sotto durante la ritirata, ma ha tenuto botta anche a sto giro fino alla fine

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